Messaggio natalizio di P. Saverio Cannistrà, Prepósito Generale
Nel
mistero del Natale Dio chiede accoglienza all'uomo. Bussa alla porta
della nostra casa, del nostro mondo, del nostro quotidiano mestiere di
vivere: vuole entrare, prendere un posto là dove siamo noi, le nostre
cose, i nostri pensieri, i nostri affetti, proprio come fa ogni figlio
dell'uomo che viene alla luce, ogni ospite (voluto o non voluto) che si
presenta a casa nostra. L'uomo chiede sempre all'altro uomo di fargli
spazio e di dargli tempo: senza di questo non può vivere. E il miracolo
del Natale è questo: se Dio si fa uomo, allora Dio ha bisogno che l'uomo
si prenda cura di lui. Ciò, per quanto paradossale e contrario a
qualunque idea naturale o filosofica di Dio, tuttavia è ancora
comprensibile. Ciò che forse risulta più difficile da capire è che
questa accoglienza è anche la definizione della salvezza dell'uomo.
L'uomo si salva nel momento in cui si prende cura di Dio. Accogliendo il
Dio fatto uomo, l'uomo accoglie se stesso, si accoglie nel modo più
vero e radicale, riesce finalmente ad amarsi.
Sì, perché il
problema è che l'uomo non si ama affatto e non si prende affatto cura di
sé. Quando nel vangelo di Luca leggiamo che "per lui (per loro) non
c'era posto nell'alloggio" o nel vangelo di Giovanni che "venne fra i
suoi, e i suoi non lo hanno accolto", è proprio dell'uomo che si sta
parlando. È questa la prima e fondamentale illuminazione del Natale:
scopriamo che nelle nostre vite e nei nostri alloggi, nelle nostre menti
e nei nostri cuori, non c'è posto per noi stessi, per ciò che veramente
siamo, per quell'incessante dinamismo che è l'uomo, per il suo infinito
potenziale di amore. Tutto è già occupato, tutto è già prenotato, un
po' come le nostre agende o i nostri calendari prima ancora che cominci
il nuovo anno.
E di che cosa è fatto questo uomo che ci chiede di
entrare e di trovare posto in noi? Mi pare che la Parola di Dio, a
leggerla tra le righe, ci dia non pochi elementi per ricostruirne la
fisionomia e per comprenderne la natura.
Il primo elemento è il
tempo. È un uomo che è fatto di tempo, che ha bisogno di tempo. Ha
bisogno di quasi un anno per imparare a camminare, di più di un anno per
imparare a parlare, e poi di altri anni per imparare a leggere, a
scrivere, a lavorare... Gesù passa trent'anni a Nazareth, crescendo in
età, sapienza e grazia. Tanti giorni, mesi, anni, che non sono uguali
gli uni agli altri, ma sono passi che si succedono, e uno è conseguenza
dell'altro. Il tempo non si ripete, va avanti, noi diciamo
"inesorabilmente", e invece no: va avanti beneficamente, salutarmente.
Mi domando se abbiamo ancora questo senso del tempo dell'esistenza, del
suo "distendersi", che è in realtà apertura di cammino, o se invece
siamo compressi nell'istante, tanti istanti, ciascuno identico
all'altro, senza progressione, senza orientamento, l'uno accumulato,
sovraimpresso sull'altro.
Abbiamo fretta di vedere i risultati, di
possedere beni tangibili, che in realtà sono solo immagini effimere,
fatte della stessa materia dei sogni. Il Dio che si fa uomo ci chiede di
accogliere l'uomo con i suoi tempi, con il suo lento crescere e
maturare.
Il Dio che entra nella nostra vita è anche l'uomo che ha
in sé spazi e paesaggi interiori. La nascita di Gesù è circondata da
una serie di esperienze fatte in solitudine e nell'interiorità. I
vangeli parlano di angeli, cioè di annunci che raggiungono Maria nella
sua attesa, Giuseppe nel suo interrogarsi, i pastori nel loro vegliare
notturno. E di tutte queste persone si dice che scoprirono una realtà
diversa, nascosta agli occhi del mondo, ma generatrice di vita, di luce,
di speranza nuova. "Furono pieni di gioia e di Spirito", secondo
l'espressione cara al vangelo di Luca. Gioia e Spirito scaturiscono dal
di dentro, come da una sorgente che sgorga dalle profondità della
roccia. L'uomo è fatto di questa roccia: c'è in lui qualcosa di molto
solido, di molto resistente. Ma abbiamo spazio per questa solidità nel
nostro mondo, che ormai ci siamo abituati a definire "liquido"? Vogliamo
essere solidi? Vogliamo veramente resistere a venti e correnti di
costanti sollecitazioni, distrazioni, tentazioni? Lo stare ancorati non
ci fa piuttosto paura, quando tutto sembra lasciarsi andare a una dolce
deriva? Eppure la fede è stare fermi, la fedeltà è stare fermi, la pace è
stare fermi, non nel senso di una inerzia o di una staticità
cimiteriale, ma nel senso di un radicarsi in profondità in qualcosa che
rimane vero, consistente e affidabile, nonostante tutto. È la Parola, il
Logos da cui proveniamo, ma "il mondo non l'ha riconosciuto". Troppe
parole, troppi sensi, troppi paradisi ci attraggono.
E infine
quest'uomo che chiede di essere accolto e riconosciuto è fatto di carne:
il Verbo si è fatto carne. Dice così il vangelo di Giovanni. Non dice:
si è fatto uomo, ma si è fatto carne, pur sapendo che carne significa
qualcosa di corruttibile, di vulnerabile, di fragile. La carne sente
freddo e caldo, sente fame e sete, sente stanchezza e sonno. La carne
sente desideri e passioni. La carne freme, trema, sanguina. Ma anche
riceve carezze e abbracci, si riscalda al fuoco e si gode la brezza del
mare, viene unta di oli profumati e fasciata di lini. La carne non è una
realtà che si prende in considerazione solo sotto il profilo della
scienza medica o della passione erotica. La carne sono io: è il mio
sentire, il mio reagire al mondo in cui vivo, la mia condizione terrena,
dalla quale cerchiamo di proteggerci, di sfuggire gnosticamente.
Parliamo ormai di uomo o di società postumana o postmortale, inseguendo
un ideale di uomo-macchina, i cui pezzi possono essere sostituiti o
trasformati. Forse non ci rendiamo conto di quanto questa visione si
stia impadronendo sottilmente delle nostre menti, allontanandoci ogni
giorno di più dal corpo di carne di cui siamo fatti e che custodisce il
nostro essere più vero. Perché è il corpo il vero soggetto della vita
spirituale, e niente più del mistero dell'Incarnazione ce lo ricorda e
ce lo fa meditare. Non disprezziamo il corpo, non diventiamo gnostici,
altrimenti con il corpo perderemo anche lo spirito. È il corpo di Gesù
che ci viene messo tra le mani, perché lo accogliamo e con esso
accogliamo anche i nostri corpi, con la loro storia, le loro ferite, le
loro emozioni, le loro fragilità. Corpi che ci chiedono di prenderci
cura di loro non solo andando dal medico, ma ascoltandoli fino in fondo,
vivendo e assaporando fino in fondo la verità del nostro essere al
mondo.
Per questo Dio è venuto nel mondo, perché imparassimo a
starci, in verità e grazia, senza fughe, ma anche senza catene: liberi,
come solo gli uomini possono diventarlo quando imparano ad essere
veramente umani.